Per primi incontriamo 7 giovani afgani appena arrivati da Trieste. Affamati, sporchi, quasi impossibile comunicare, nessuno parla inglese. Uno mi fa vedere le scarpe sfondate, l’altro le ferite sulla gamba coperte da garze ormai sporchissime. Per tutti un kebab e una bevanda, mentre timidi si avvicinano altri. Abdul della Guinea piange. Parla in italiano perché è qui dal 2018 e mi spiega di essere stato derubato di tutto. Permesso di soggiorno e telefonino. Gli è rimasta solo la carta di identità. Un ragazzo marocchino è sdraiato poco lontano, rassegnato a non essere aiutato da nessuno. Riusciamo a inviare 3 afgani al dormitorio di via San Marco, 4 verranno accompagnati da Silvia presso il nostro appartamentino per housing sociale. Poco prima era stata inviata in San Marco una famiglia afgana con 4 bambini. Fine. I posti sono finiti. Ogni sera sono, quando va bene, 7-10, non di più. Ad Abdul e al ragazzo marocchino Silvia dà appuntamento la mattina dopo. Li accompagnerà al nostro guardaroba dove avranno doccia, cambio e un telefono. Abdul avrà istruzioni per andare all' Associazione Naga, chissà che non lo possano aiutare per il suo permesso di soggiorno. Si torna a casa con l’amaro in bocca, quasi scappiamo per non incontrarne altri che non potremmo aiutare. La sensazione è di avere raccolto l’acqua di un lago con il cucchiaino. Li lasciamo in Stazione, casa di derelitti abbandonati da Dio e dagli uomini.
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